Verso le terre di nessuno
di Donatella Bassanesi
Milano, mercoledì 20 luglio, ore dieci, c’è sole, la temperatura è di 28°. Inizio le osservazioni.
Di Milano ci sono tracce di una città che non c’è.
Un’intricata rete di navigazione per il trasporto-merci, sono il sistema Navigli che oggi scorrono sotto le strade. Serviva a trasportare da ovest la ghiaia (gli ultimi trasporti sono stati dopo la guerra, per la ricostruzione della città bombardata), da est il legname. Rimane il vago ricordo, segnali nei toponimi, e ‘spezzoni’, come strada d’acqua è ‘deserto’.
Da est, e dall’Adda, proviene il Naviglio Martesana che attraversa gran parte della città quasi tutto coperto (copertura determinante a far perdere a Milano la caratteristica di città d’acqua), le sue acque attraversano sotterranee un lungo pezzo di città, e si mescolano, rimanendo sempre invisibili, a quelle degli altri Navigli ad ovest, alla Darsena (il Porto del sistema-navigli).
Seguendo la parte scoperta si percorre un tratto che era campagna a est della città. Vicini i grandi poli industriali, di Greco-Bicocca, l’area Falk, la Breda, Sesto s. Giovanni, e la Stazione centrale.
Così il Naviglio è scavalcato da un sistema di arcate che reggono i binari della ferrovia, intrecciati piani diversi di strade.
Sotto i treni che passano incrociandosi a più livelli, ci sono orti, terreni abbandonati, capannoni, e nella parte più scura di una delle gallerie, vicino un albero di fico, ci sono materassi arrotolati dove qualcuno di notte viene a dormire.
Nel punto in cui il Naviglio svolta avvicinandosi alla città, dove c’era la sua ‘conca’, il ‘salto’ e la ‘porta’ della chiusa che permetteva alle imbarcazioni di superare il dislivello, dove rimangono segni di una cascina, di un’ osteria e dove si dice ci fosse un mulino, c’è una grata di ferro e il Naviglio sparisce come assorbito dalla terra. Contro questa grata si ferma sempre qualcosa: sono stati ripescati carrelli della spesa, pezzi di biciclette, di motorini, qualche pistola. A volte arrivano corpi di ammazzati, o annegati. Per questo i fantasmi degli assassinati e dei suicidi vagano sotto la città, tra i Navigli coperti (Ligeti).
Vicino a un ponticello che si chiama ponte vecchio c’è una piazzetta che in parte è usata come posteggio, e che è attraversata da due strade, di cui una con doppia curva. Pur avendo un monumento (sul quale è stata impressa la scritta ‘ecco la guerra’) che dovrebbe segnalarla come piazza, per indeterminatezza ha piuttosto le caratteristiche di un incrocio. Non abbastanza per essere una piazza e troppo per essere una strada, si direbbe incongrua, l’incursione aerea del 20 ottobre 1944 allunga la sua ombra, la piazza è il segno della bomba, una scuola elementare centrata in pieno, i bambini morti.
Il mercoledì mattina c’è mercato, una città che compare e scompare, una città nella città, stracolma. Questo è uno di quei mercati settimanali che si consumano in poche ore, la loro transitorietà, la provenienza ignota, li fa centri provvisori, e rende impossibile l’accostamento e la somiglianza con gli imponenti centri commerciali.
Oggi qualche banchetto ha ‘occasioni’. I compratori si mostrano ‘cacciatori’ nell’acutezza degli sguardi, nell’attenzione ai richiami, nella diffidenza verso le merci messe troppo accuratamente in mostra. Lungo il lato destro del mercato si vendono abiti, scarpe, oggetti per la casa. Lungo il lato sinistro solitamente ci sono i banchi della frutta e della verdura, quello del pesce e quello delle focacce, ma oggi ne mancano molti e allora se ne sono inseriti dei nuovi che vendono le cose più diverse.
Adesso, che è agosto la città si è svuotata dei ‘benestanti’, il mercato è meno ‘festoso’. In un angolo, seduto su una cassetta bassa rovesciata sta seminascosto un uomo vestito di scuro, mostra un cartello che inizia “ho un bambino piccolo sono disoccupato…”. Saluta. Ha una specie di particolare confidenza con la terra, anche se meno ‘profonda’ di quelle donne dall’età incerta, dalle sottane scure e dal fazzoletto calato sulla fronte che, accoccolate, della terra quasi ne fanno parte, si direbbe ne fanno uscire la voce (e una mano), ascoltano lo strato addormentato, la radice che affonda, è stretta ma è nutrita dalla terra, e cerca tormentosamente di sprofondare.
Milano, lunedì 22 agosto 2005, ore 11,30, il tempo è incerto, la temperatura è di 23°
Del Naviglio Martesana, che si forma dall’Adda molto prima di Milano, nel tratto (scoperto) che scorre ‘in città’ si può percorrere soltanto una riva, mentre sull’altra ci sono orti, parti incolte, case che a tratti fanno barriera.
Gli orti sono su due terrazzamenti e hanno scalette che scendono fino all’acqua. Generalmente davanti, quasi in acqua, ci sono fiori (ortensie, le rose); gli alberi, quelli spontanei (le acacie, le canne di bambù, i fichi), e quelli piantati (un prugno, un ulivo...e qualche pianta di vite: sotto una di queste – che fa un pergolato ed è protetta da una rete azzurra – oggi qualcuno sta chiacchierando. Adesso ci sono i pomodori maturi sorretti da quattro canne incrociate, le piante di zucchine e di zucca, le piante delle verze).
In questo tratto, in acqua ci sono anatre e gallinelle d’acqua, i piccoli sono oramai quasi adulti e si muovono abbastanza liberamente. Ogni tanto questa popolazione diminuisce e aleggia il sospetto che ‘qualcuno’ (gli invisibili poveri?) se li mangino.
Oggi sotto la galleria, o meglio sulla banchina che costeggia l’acqua e passa sotto una delle arcate che sopraelevano i binari della linea ferroviaria, dove ci sono dei materassi, un uomo li sbatte e mette ordine fra le sue cose, nella sua ‘casa’ che non ha entrata, chiusa da inferriate.
L’uomo non guarda al di qua, è serio, forse cupo, i suoi gesti sono posati, è bruno, ha una barbetta curata. Chi passa non guarda attraverso le sbarre, oltre la gabbia, la trappola.
Vicino alla stazione della metropolitana scompaiono gli orti, la ‘campagna diventa ‘centro, una vecchia cascina a lungo abbandonata è stata trasformata in alloggi di lusso.
Di fronte, nella riva di qua, una casa ‘di ringhiera’, al piano terra uno studio di architettura e una ‘taverna greca’, entrando, davanti al portone, fiori e una corona di alloro, una lapide ricorda i venti morti sotto quello stesso bombardamento che nel 20-10-1944 ha ucciso, un po’ più in là, i bambini di una scuola. I cortili interni con gli intonaci ‘antichi’, i panni stesi.
Vicino alla fermata della metropolitana, oltre un cancello che porta la scritta ‘Circolo Familiare di Unità proletaria’, dove una bacheca ha sempre la copia del giorno dell’Unità, c’è un giardinetto, ‘il boschetto’ (con un baracchino per le bibite, dei tavolini dove si gioca a carte) che denomina tutto il posto fino all’edificio grigio in fondo dove a una finestra sventola, verso il Naviglio, una bandiera.
Milano, giovedì 25 agosto, ore 10,10, ci sono 24°, il tempo è grigio, continuo le osservazioni lungo il Naviglio Martesana, dalla parte opposta rispetto al ponte vecchio, verso est, dalla parte dove il Naviglio nasce dall’Adda
Lungo la strada c’è ancora poca gente. Gli orti lungo la riva si fanno più radi. L’uva nera è già quasi matura. Su un albero ci sono mele, fioriscono rose, i pomodori sono maturi. Qualcuno prepara un pezzetto di terra per l’inverno.
Dall’erba e fra le piante cresciute spontaneamente, emergono macerie e materiali di risulta.
La riva destra si allarga su un parco. Adesso è frequentato da quelli che corrono, dalle madri, dai padri, dalle nonne, dai nonni, dai bambini e dai cani, e dove di domenica ragazzi nordafricani giocano a calcio. Faceva parte della campagna che divideva il ‘paese’ che sto lasciando (Gorla) e quello verso cui mi dirigo (Crescenzago) che è rimasto comune a sé fino a non molto tempo fa. A lato di un prato c’è un grattacielo di 18 piani a forma di torre, è la traccia di quel progetto di metropoli degli anni ’60 che nell’edilizia popolare, e nella città-fabbrica, vedeva la leva della giustizia sociale (e dello sviluppo). Per la posizione isolata, per l’ altezza e per la forma insolita è molto visibile. Oggi (nonostante il grigio che riporta alla fabbrica e all’edilizia operaia), anche per il privilegio del suo isolamento in mezzo a un parco, lo si direbbe un elegante complesso abitativo.
Più avanti, tra i palazzi, si ritagliano frammenti della città industriale in parte dismessa, in parte riadattata (sono capannoni in ferro e vetro) e casette.
Poi finiscono gli orti, i capannoni, le casette. Le due rive diventano estremamente dissimili.
Da un lato la riva viene come assorbita da una strada (fino a questo punto correva invisibile e parallela, per contrasto qui appare ancora più ampia), e ci sono i ‘palazzoni’ degli anni del primo boom edilizio. Mentre dall’altro lato, proprio come si entrasse in un altro mondo, la riva si trasforma in un elegante viottolo dove una villa settecentesca apre una serie di sette ville degli inizi del ‘900 (che la ‘buona’ borghesia milanese si faceva costruire per vivere ‘fuori porta’, o per villeggiatura ad imitazione degli aristocratici dei secoli precedenti).
Alla prossima curva la ‘terra di nessuno’ è vicina, in agguato.
Terre di nessuno
di Donatella Bassanesi
Nelle città, distaccati e temuti, ci sono centri che sono passaggi stretti, costrittivi, che rendono chi ci finisce dentro, immobile. L’isolamento è la loro caratteristica prima. Sono terra di nessuno dove si è insieme tenuti a bada e abbandonati.
Ma la città globale si costituisce di altre ‘terre di nessuno’. Abitate da ‘ombre’ registrate come ‘problemi sociali’, ‘ripulite’ periodicamente dagli ‘indesiderati’. Terre di nessuno che sono luoghi dove si mettono in atto operazioni repressive chiamate di ‘security’, dove trovano rifugio gli ultimi, i clandestini che lavorano sotto-pagati e che non vengono messi in regola per essere meglio ricattati (da quelli che su di loro si arricchiscono e con questo obiettivo alimentano paure del diverso, dello straniero, del povero, sfruttatori di manodopera tenuta senza diritti, responsabili di morti quotidiane. Sono terre nelle quali le violenze e le crudeltà con le quali le ‘forze dell’ordine’ hanno agito distruggendo i ripari (gli sgomberi dei campi nomadi) rappresentano il paradigma della linea di continuità fra le repressioni interne e le guerre portate fuori, il legame tra violenza prodotta da organi dello Stato e sfruttamento, e l’uso della guerra come arricchimento (in termini economici e di potere) che allarga oltre la norma il divario tra chi ha e chi non-ha, perché nelle nostre città ci sono persone non tutelate rispetto al diritto fondamentale alla vita, che si mettono a rischio ogni giorno (lesioni queste del diritto che priva lo Stato della sua ragione prima, quello di essere ‘di diritto’, a tutela dei diritti). È bene tenere presente che nella storia la marginalizzazione di una parte è stata la marginalizzazione di una certa cultura che fa ostacolo a quella dominante. Nell’Europa moderna “i vincitori hanno imposto la propria identità negli Stati-nazione, i vinti, quando non sono stati annientati, sono stati relegati nel ruolo di minoranze religiose, dialettali, culturali, o non sono stati riconosciuti nemmeno come tali” (L. Piasere, I rom d’Europa – una storia moderna, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 106). Così sono spariti modi di vivere e modi di pensare il vivere, quelli dei non ‘assimilati’. Stati-nazione che avendo ereditato la separazione interna tra padroni e servi, privilegiati da una parte e la massa degli sfruttati (il cui lavoro è mal riconosciuto, la cui vita conta poco) dall’altra, a ragione della disparità profonda tra sfruttati e sfruttatori affermeranno la necessità di Diritti umani per tutti e riconosciuti da tutti, ma le cui violazioni raramente sono evidenziate e punite. La parola così resa impotente occulta differenze, rende ininfluenti il pensiero, la critica. Conta chi è più potente. Un processo da cui derivano paure cieche, immobilizzanti, regressive, e violenze (agite dagli stessi rappresentanti dello Stato che rimangono impuniti, restano ai loro posti) per le quali emergono forme degradate e degradanti di convivere. Insegna ciò che era già avvenuto a Torino nel 1998 (era il 50enario della Dichiarazione universale dei diritti umani). Per iniziativa degli amministratori comunali, verso i rom, era stata scoraggiata “la minima concessione ‘umanitaria’”, che sarebbe suonata “come un incentivo”, avrebbe “attirato nuovi ‘ospiti’ indesiderati” per i quali bisognava predisporre un “tasso di vivibilità” “il più basso possibile”. Perciò furono condotte da vigili e poliziotti azioni volte a ‘costruire’ sulle persone la figura del criminale, prendendo nei campi “le generalità e le impronte digitali a tutti, anche ai neonati, come si fa con i criminali” (riportato da: Marco Revelli, Fuori luogo – Cronaca da un campo rom, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, pp. 12, 13). Eppure l’ Art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani, 1948, dice che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Passanti
Nella città totale le cose avvengono senza che si conosca esattamente chi le fa avvenire, con quali complicità, e quale raggio d’azione comprendono gli interessi che fanno avvenire tali ‘cose’. Anche se “la pluralità è la legge della terra” (H. Arendt, Thinking, New York, 1978, p. 34), il modello è unico, provoca indifferenti, annulla i differenti (quelli per cui i diritti non valgono, gli oggetti dello sfruttamento). Così, mentre nella Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) Art. 17 (di cui quest’anno è il sessantesimo) sta scritto “Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà”, i campi nomadi (a Milano) sono stati sgomberati dalle forze di polizia con la distruzione di tutto quello che c’era, senza che nessuno fosse incolpato di vandalismo, nessuno pensasse di dover risarcire i danni provocati. Si era già visto dieci anni fa (a Torino), un “paesaggio fattosi d’un colpo ‘orizzontale’, silenzioso e deserto”, “resti anneriti dall’incendio”ciò che resta dopo l’intervento di rappresentanti dello Stato, di una “società fondata sulla proprietà, dominata dal possesso” che nel caso in cui tratti degli ultimi, perché non hanno diritti, diventa “cose di cui disporre liberamente, da sequestrare, calpestare, distruggere, disperdere”(M. Revelli, Fuori luogo - cronaca da un campo rom, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 74).
Così l’occidente con mentalità coloniale restringe gli spazi conquistandoli, nega pluralità, riduce le forme di vita collettiva e individuale a forme sfuggenti e divoranti, facendo rientrare tutto in quel “vortice più o meno caotico di eventi che noi non mettiamo in atto, ma patiamo (pathein) e che in circostanze di forte intensità possono travolgerci” (H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 154). Compressi, immersi in una sorta di fissità senza stabilità nella quale si conducono vite precarie, immersi in una condizione di rischio ‘abituale’, dove si parla una sola lingua, che non passa attraverso differenze, non si mette a confronto, non interroga. Senza luogo da attraversare, senza movimento, mutamento, tempo, anima, è la strada che non si vede.
Perciò, offuscato il tempo, “la forma del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno” (I. Kant), “alla luce delle nostre esperienze è forse giunto il momento di scoprire la dignità filosofica dell’esperienza del dolore”, e che “questo insopportabile dolore sarebbe del tutto insopportabile (…) se non ci fosse la morte” (H. Arendt, Il futuro alle spalle, cit. p. 189).
Il nientificante carattere di totalità del presente produce la città totale, estranea alla vita dei singoli, che provano paura del luogo in cui vivono, delle persone che lo abitano, alzano barriere, all’interno delle quali si rifugia “l’interiore soggettività individuale, che era stata riparata e protetta in precedenza dalla sfera privata”, che diventano “evasione dal mondo esterno nel suo insieme”, in assenza sia di pubblico sia di privato, poiché si è estinta la “differenza tra sfera pubblica e privata”, ambedue assorbite nella totalizzante sfera sociale – “il pubblico essendo divenuto funzione del privato e il privato essendo divenuto l’unico interesse comune rimasto” ed essendo stato abolito “nel senso di un luogo concreto, nel mondo, di ciò che è proprio” (H. Arendt, The Human Condition, Chicago, 1958, tr. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964, 2001, pp. 50, 51).
Ma proprio all’interno delle barriere alzate dal totalizzante sociale, attraverso l’indistinto continuamente in crescita, lungo strade uguali, passano nascostamente i limiti tra l’uno e l’altro, cioè le differenze. Differenze che non sono semplicemente da rispettare, sono da coltivare perché l’interrogarsi delle differenze, comprendere “l’enorme varietà delle società indiscutibilmente umane” (H. Arendt, La vita della mente, cit. p. 530), è spostarsi dal pensato verso il pensabile, trovarsi faccia a faccia con l’abisso della libertà che è vera negazione, perché “il ‘non’ dell’ente” è “partire dall’ente” (M. Heidegger, Wegmarken, V. Klostermann, Frankfurt am Main, 1976, Segnavia, Milano, Adelphi, 1987, p. 79).
12- novembre- 2008 |